Dal campo sportivo alla politica: il potere di chi insegna senza comandare
“La narrazione dominante dice cosa devi pensare; l’interpretazione consapevole ti chiede di pensare con la tua testa.”
Quando il comando diventa un’abitudine
Ci sono genitori che, davanti al figlio che fa una scelta sbagliata, dicono:
“Stai zitto e fai come ti dico.”
Ci sono allenatori che, a ogni errore della squadra, gridano:
“Non fare un cazzo, passa la palla e basta!”
E ci sono politici che, davanti a un popolo o a un’altra nazione, ripetono la stessa logica:
“Non discutere, obbedisci. Noi sappiamo cosa è meglio per te.”
La scena cambia — una casa, una palestra, un parlamento o un confine di guerra — ma la dinamica è identica: l’autorità che parla al posto dell’altro.
E ogni volta che questo succede, qualcosa si spegne: la curiosità, la responsabilità, la libertà di pensare.
È così che si costruisce l’obbedienza cieca.
E dove cresce l’obbedienza cieca, muore la coscienza.
“Chi impone una narrazione cerca obbedienza; chi propone un’interpretazione cerca alleati nel pensiero.”
Il paradosso dell’autorità
Un genitore crede di proteggere il figlio, un allenatore pensa di aiutarlo, un politico dice di difendere il popolo.
Ma quando si impone un comando invece di un dialogo, si sta soltanto costruendo una dipendenza.
La storia ce lo insegna bene: ogni volta che qualcuno ha detto “state zitti e seguite me”, ha aperto la strada al dominio — che fosse un imperatore, un dittatore, o un “salvatore” di turno.
Nel Crogiolo delle Stregone, Claudio Simeoni spiega che il potere diventa tirannico quando pretende sottomissione senza consapevolezza.
Chi obbedisce senza capire, cede il proprio potere di essere.
Chi invece riflette, domanda e negozia, diventa parte attiva del proprio destino.
“L’autorità racconta la sua versione dei fatti; l’educatore insegna a leggere ciò che non è stato scritto.”
L’operaio che sfida Dio: una lezione per ogni campo
Nel libro di Simeoni, la storia dell’operaio che sfida Dio a un gioco di carte rappresenta proprio questo.
Non è una provocazione atea: è una metafora universale.
L’operaio è l’uomo che rifiuta di essere solo un esecutore.
Dice a Dio: “Voglio giocare anch’io. Non accetto le tue regole senza discuterle.”
È il gesto più umano che esista: quello di chi non vuole solo sopravvivere dentro il sistema, ma capire e costruire le proprie regole.
Ecco perché “lasciare che siano loro a giocare” non è debolezza: è educare alla responsabilità.
È dire: “Io ti preparo, ti aiuto, ma in campo ci vai tu.”
Se non sbagli tu, non impari tu.
E se non decidi tu, non vivi tu.
Lo stesso accade in ogni gesto quotidiano: nella ragazza che, al suo compleanno, smette di nascondersi e sceglie di esserci davvero — luminosa, viva, presente — o nella commessa che, dietro al bancone, non si limita a servire ma trasforma il suo lavoro in un incontro, in un modo per lasciare un segno.
In quei momenti, anche piccoli, la vita si accende: perché non stai più ripetendo un copione, stai giocando la tua partita.
Allenare la libertà, non il controllo
Nel mondo sportivo, si vedono due tipi di allenatori.
Ci sono quelli che vogliono sentirsi indispensabili — che urlano, controllano, decidono tutto.
E ci sono quelli che parlano poco, ma costruiscono fiducia.
Questi ultimi sanno che quando arriva il momento decisivo — quel “ventiquattro pari” in cui tutto si gioca su una scelta — i giocatori sono soli.
Lì dentro non c’è coach che tenga.
O hanno imparato a pensare, o guarderanno la panchina cercando un ordine che non arriverà.
Allo stesso modo, i genitori che vogliono figli autonomi devono accettare il rischio dell’errore.
Perché chi non sbaglia mai non impara niente, e chi ubbidisce sempre diventa fragile.
L’autorità che vuole essere amata deve prima rinunciare al controllo.
Dalla famiglia alla geopolitica
Lo stesso schema si ripete, su scala più grande, quando uno Stato impone a un altro cosa deve fare.
È la logica del genitore autoritario trasformata in logica di potere.
Israele contro la Palestina, o qualunque altra guerra moderna, nasce spesso da questa idea primitiva:
“Io so cosa è giusto. Tu no. Quindi taci e obbedisci.”
La filosofia di Simeoni ci aiuta a leggere anche questo: chi pretende di “salvare” imponendo le proprie regole non salva nessuno, ma distrugge la possibilità del dialogo.
Ogni guerra nasce dove finisce la parola.
E ogni dittatura nasce dove il pensiero smette di muoversi.
Parlare è un atto di coraggio
Che si tratti di un figlio, di un atleta o di un popolo, la libertà comincia quando qualcuno trova il coraggio di dire:
“Non voglio più giocare con le tue regole.”
È lo stesso coraggio che serve per dire “ti amo” sapendo che l’altro potrebbe non rispondere, o per dire “non sono d’accordo” sapendo che si rischia di perdere qualcosa.
Ma senza questo rischio, la vita resta una partita finta.
E chi gioca con te — ma non insieme a te — ti sta solo usando come pedina.
Il linguaggio di Simeoni è chiaro: la libertà non è mai concessa dall’alto, va costruita dal basso, giorno dopo giorno, parola dopo parola.
È l’atto più rivoluzionario che un essere umano possa compiere: parlare con sincerità anche quando fa paura.
“La narrazione dominante ti tiene in panchina; l’interpretazione consapevole ti mette in campo.”
Il compito dell’educatore, non del padrone
Il genitore, l’insegnante, l’allenatore, il politico — tutti hanno una responsabilità comune:
insegnare a giocare senza diventare i protagonisti della partita.
Chi educa davvero prepara gli altri a pensare.
Chi domina, invece, si sente necessario per sentirsi vivo.
Ecco la differenza tra chi costruisce libertà e chi costruisce dipendenza:
il primo forma persone capaci di camminare da sole, il secondo crea seguaci che non possono fare a meno del loro “capo”.
Rifletti: la vera vittoria
Il giorno in cui un figlio, una squadra, o persino un popolo riesce a decidere da sé — anche sbagliando — è il giorno in cui l’educazione, l’amore e la politica smettono di essere strumenti di controllo e tornano a essere strumenti di vita.
Lasciare che siano loro a giocare non significa disinteressarsi.
Significa credere abbastanza nella loro forza da non aver bisogno di dominarla.
E forse, solo allora, smetteremo di costruire guerre — in casa, nello sport o tra nazioni — e cominceremo a costruire coscienze capaci di giocare la propria partita fino in fondo.
“Ogni volta che imponi silenzio in nome della sicurezza, uccidi la libertà in nome della paura. Lascia che siano loro a giocare: solo chi sbaglia da sé può imparare a essere libero.”
---
✦ Nota: Questo sito contiene link affiliati, il che significa che in caso di acquisto di qualcuno dei libri segnalati riceveremo una piccola commissione (che a te non costerà nulla): un piccolo contributo per sostenere questo sito e la realizzazione di questo progetto. Grazie per il sostegno!
---
