Controbattere non è vincere. È non cedere all’idiozia.
Chi vive per caso, non ha scelto la direzione: occupa spazio, ma non lascia traccia.
In un mondo dove anche l’obiezione è diventata un gadget, un contenuto da caricare, e lo sdegno viene dispensato come cioccolatini a messa, Controbattere è ciò che non fa notizia perché non piagnucola. Non sbava. Non urla. Non si vanta. Non posta. Ma intanto mette i puntelli là dove tutto crolla: nel pensiero.
Chi si lamenta di non avere tempo per rispondere, per partecipare, per “costruire qualcosa insieme”, spesso mente. O peggio: dice la verità. E questa verità è la testimonianza della sua impotenza senza stile, la prova che, per alcuni, non partecipare è il massimo gesto di presenza che riescono a inscenare.
Controbattere, al contrario, è quel gesto scomodo e perdente che non vuole convincere nessuno. Vuole solo tenere il cavo teso. Non è un ponte che unisce due rive per amore del paesaggio: è un cavo d’acciaio sospeso sul vuoto per chi ha ancora voglia di attraversare senza selfie.
Nessuno “vince” in questa faccenda, e chi ci prova, ha già perso. Perché vincere presuppone una gara. E chi fa del confronto una gara, ha già deciso che le parole servono per dominare, non per scoprire. E invece Controbattere è uno sport per chi accetta la sconfitta come unica condizione di lucidità.
Non è diplomazia, né cortesia, né rispetto: è rifiuto dell’isteria come unico canale di comunicazione.
Controbattere è dire “no” senza diventare schiuma alla bocca, è dire “forse” sapendo che ci si perderà in quel forse per sempre. È infilare il proprio pensiero dentro il pensiero dell’altro, non per confutarlo, ma per vedere se tiene.
Chi si limita a dire “non mi interessa” senza neanche cercare il varco, senza cercare il pilone invisibile che sostiene l’altro, non taglia i ponti: li rinnega. Li tratta come se fossero sempre stati rottami. Ma ogni ponte è un gesto di fiducia prima ancora che una struttura. Chi lo rifiuta, rifiuta la propria parte costruttiva.
Controbattere non è reagire: è costruire dove gli altri si offendono, è pensare dove gli altri sbraitano.
Ma il problema non è chi rifiuta. Il vero orrore è quanti rifiutano fingendo di non sapere di rifiutare. Quelli che usano il silenzio come pietà, la sparizione come etica, l’assenza come risposta educativa. Quelli che ti dicono che “sei troppo”, ma in realtà sono loro a essere niente. E quel niente ha l’arroganza di sentirsi misura.
Controbattere è la fine del chiacchiericcio. È la parola che si prende sul serio, ma non si prende sul trono. È il rigore che si concede il lusso dell’intelligenza, ma non del decoro. Perché il decoro è ciò che resta quando non si ha più nulla da dire.
Chi controbatte davvero, non ha tempo di apparire elegante, né di sorridere come un presentatore del TG3 quando dice la sua. Chi controbatte inciampa, si impolvera, si sporca la voce di sangue verbale, ma non crolla mai nel sarcasmo autocompiaciuto degli sconfitti cronici.
La differenza tra chi agisce e chi esiste è che il primo sa perché lo fa.
E soprattutto, se entri in un locale e ti prendi male per una ragazza che nemmeno ti guarda, o per 50 euro che non vuoi mettere per una bottiglia, allora non sei lì per vivere con passione i tuoi obiettivi. Sei lì per caso. E chi vive per caso, spreca ogni spazio. Il locale, la palestra, la conversazione, la notte, tutto diventa una scenografia dove ci si aggira senza copione, senza direzione, come comparse che sperano in una scena madre che non arriverà mai. Controbattere, invece, è esserci con tutto, è vivere anche un no come parte di un sì più grande che ti porti dentro.
Perché Controbattere è restare lì, anche quando sarebbe più comodo lasciar cadere. È tenere la mano sull’aratro mentre tutti stanno già cercando la sedia per applaudirsi da soli. È sentire che ogni parola può essere un pilastro o una crepa. E scrivere come se fosse tutte e due.
Ma la cosa più oscena da dire, quella che fa arrossire anche i più “impegnati”, è che Controbattere è anche piacere. Il piacere di non farsi salvare. Di non farsi applaudire. Di dire la propria con l’aria di chi non ha nulla da perdere, e proprio per questo dice qualcosa che resta.
Non è un manifesto. Non è una dottrina. È una fionda in mano a chi ha smesso di cercare eroi. È il rifiuto di accettare l’indifferenza come unica forma di maturità.
Chi non sa cosa sta facendo, prima o poi farà quello che odia.
E non si tratta nemmeno di essere “gentili nel rispondere” o “educati nei toni”. È essere chirurgici. Rigorosi. Senza anestesia. Perché la cortesia, oggi, è l’arma preferita degli evasori emotivi.
Controbattere è assumersi la responsabilità delle proprie parole, non per piacere, non per ottenere, ma per costruire qualcosa che possa anche essere odiato con precisione, e non semplicemente ignorato con noia. È dare peso alle frasi come fossero travi, e non piume.
Controbattere è tutto ciò che non si può insegnare, perché lo si vive. È uno stile, non uno schema. È l’arco che lancia frecce anche sapendo che non colpiranno niente — ma saranno ricordate per come sono state scoccate.
E allora se mi chiedi: “Mi aiuti a scrivere su Controbattere?” — non ti aiuterò per pietà o per dovere. Ma solo se ho voglia di essere attraversato anch’io. Perché rispondere non è un favore: è un atto d’amore senza sentimentalismi.
Ogni passo che non sai spiegare a te stesso è un passo verso la resa.
Controbattere è rispondere come se tutto dipendesse da quella risposta. Anche se non dipende da nulla.
Perché è così che si costruiscono i ponti: con chi sa che non servono per fuggire, ma per restare in piedi mentre tutto intorno affonda nei silenzi che puzzano di resa.
Il tempo non lo perdi quando sbagli, ma quando agisci senza sapere perché.