Gli Dèi Non Spariscono. Cambiano Campo di Battaglia
Quando una forza smette di essere nominata, non smette di agire.
Semplicemente, agisce senza testimoni.
C’è un errore di fondo, silenzioso e persistente, che attraversa la modernità come una crepa sotto l’intonaco. È l’idea che ciò che non viene più nominato smetta di esistere.
Gli Dèi — nel senso arcaico, non religioso — vengono spesso trattati così: figure superate, simboli poetici, residui di un’epoca ingenua. Ma questa lettura è comoda. Troppo comoda. Perché permette di archiviare una questione senza affrontarla.
Eppure la frase è chiara: gli Dèi possono sparire dall’orizzonte della percezione umana, ma vivono tutti dentro di noi e fuori di noi. Qui non c’è nostalgia del mito. C’è una constatazione strutturale.
Quando una forza non viene più riconosciuta, non si dissolve.
Cambia posizione.
Scende di livello.
Passa dal simbolico al operativo.
Anche le neuroscienze hanno mostrato come processi non coscienti continuino ad agire quando non vengono riconosciuti, rovesciando l’idea di una razionalità sovrana, come evidenziato da Antonio Damasio in L’errore di Cartesio.
La rimozione non elimina. Sposta.
Ogni civiltà produce un proprio modo di nominare le forze che la attraversano.
Quando le nomina, può dialogarci.
Quando smette di nominarle, quelle forze non chiedono il permesso. Agiscono.
La modernità ha fatto esattamente questo: ha dichiarato chiusa la stagione degli Dèi, convinta di averli superati con la ragione, la tecnica, l’organizzazione.
Ma ciò che è stato davvero superato non sono gli Dèi.
È la capacità di vederli.
Il risultato non è un mondo più razionale.
È un mondo più inconsapevole.
Gli Dèi non chiedono fede. Chiedono uso.
Un passaggio cruciale viene spesso frainteso: “siamo noi che possiamo scegliere di usarli, anche perché gli Dèi non si fanno scrupolo quando ci vogliono usare.”
Qui non c’è moralismo.
Non c’è avvertimento etico.
C’è una legge di funzionamento.
Le forze che abitano l’umano — desiderio, distruzione, costruzione, potere, paura, slancio, ossessione — non sono buone né cattive. Sono operative.
Se non vengono assunte, si impongono.
Se non vengono usate, usano.
La scelta non è se credere o non credere.
La scelta è se essere soggetto o oggetto.
Anche la biologia evolutiva descrive dinamiche in cui l’individuo non è il vero agente dell’azione, ma il veicolo di forze che lo attraversano e lo utilizzano, come mostrato da Richard Dawkins in Il gene egoista.
La guerra non è evento. È stato permanente.
“Per loro, la quotidianità è sempre un lottare sotto le mura di Troia.”
Questa frase disinnesca un’altra illusione moderna: che il conflitto sia un’eccezione.
Una parentesi.
Un incidente della storia.
Al contrario, il conflitto è la condizione di base.
Lo studio dei sistemi complessi ha mostrato come il conflitto emerga spontaneamente dall’interazione delle parti, senza un centro di controllo, come descritto da M. Mitchell Waldrop in La complessità.
Non perché la vita sia tragica, ma perché è dinamica. Ogni equilibrio è temporaneo. Ogni scelta implica una rinuncia. Ogni direzione genera tensione.
Le mura di Troia non sono un luogo storico.
Sono una struttura ricorrente.
Sono il punto in cui una forza vuole entrare e un’altra resiste.
Sono il confine tra ciò che può accadere e ciò che viene difeso.
Sono la linea sottile tra trasformazione e conservazione.
Chi pensa di vivere “una vita normale” ha semplicemente smesso di guardare dove sta combattendo.
Fingere che vada tutto bene è una strategia. Non una pace.
Il passaggio finale è il più spietato: “noi, anziché essere consapevoli delle contraddizioni che abitiamo, fingiamo che vada sempre tutto bene salvo pentirci, troppo spesso, per le scelte che facciamo.”
Qui emerge una struttura che si ripete ovunque:
la negazione del conflitto come premessa del rimpianto.
Quando una società smette di riconoscere le forze che la attraversano, produce individui che recitano stabilità mentre accumulano tensione.
Non scelgono. Reagiscono.
Non decidono. Rimandano.
Non abitano le contraddizioni. Le coprono.
Il pentimento non nasce dall’errore.
Nasce dalla non-consapevolezza della forza che stava agendo.
Gli Dèi non puniscono. Espongono.
Un altro fraintendimento ricorrente: pensare gli Dèi come giudici.
In realtà, funzionano più come amplificatori.
Portano alla luce ciò che è già in atto.
Rendono inevitabile ciò che è stato evitato troppo a lungo.
Accelerano processi che si fingevano sotto controllo.
Per questo non “spariscono” mai.
Perché non sono personaggi.
Sono dinamiche.
Quando una civiltà smette di riconoscerle, le vede tornare sotto altre forme:
crisi improvvise, scelte incomprensibili, collassi personali, sistemi che implodono senza una causa apparente.
Non è caos.
È continuità non riconosciuta.
Il vero errore moderno: credere di essere fuori dalla battaglia.
La modernità non ha abolito gli Dèi.
Ha abolito il linguaggio per riconoscerli.
Così facendo, ha prodotto una figura nuova:
l’individuo che crede di essere neutrale.
Ma non esiste neutralità rispetto alle forze.
Esiste solo inconsapevolezza del campo.
Chi non sa sotto quali mura sta combattendo, combatte comunque.
Solo che non sa per chi.
Né contro cosa.
Controbattere non recupera il mito. Recupera la struttura.
Qui non si tratta di tornare indietro.
Si tratta di smettere di mentirsi.
Gli Dèi non chiedono altari.
Chiedono riconoscimento.
Non vogliono adorazione.
Vogliono presenza.
Perché ciò che viene visto può essere usato.
Ciò che non viene visto, usa.
E quando una forza non trova spazio nella coscienza, lo trova nella storia.
Quando non trova parola nell’individuo, la trova nel sistema.
Quando non viene abitata, diventa destino.
Non viviamo in un mondo senza Dèi.
Viviamo in un mondo che finge di non vederli.
E proprio per questo li subisce.
Chi ha attraversato queste dinamiche sa che non appartengono a un’epoca né a una scuola. Sono state esplorate in profondità anche in testi che non cercano consenso, ma confronto diretto con le forze che abitano l’umano. Alcuni di questi percorsi sono raccolti nei libri di Claudio Simeoni, dove il mito non è simbolo, ma descrizione operativa di ciò che agisce, dentro e fuori l’individuo.
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