Quando Nessuno Ti Riconosce

Trattami per Quello che Non Sono (Ancora)

“Trattate un essere umano per quello che è, e rimarrà quello che è.
Trattate un essere umano per quello che può e deve essere, e diventerà quello che può e deve essere.”
(Goethe)

Quante volte l’hai sentita questa frase? Mille, diecimila, scolpita nei libri motivazionali, recitata come rosario nei corsi di leadership, ripetuta da chi ti guarda con lo stesso sguardo con cui guarderebbe un sacchetto di plastica che vola al vento.

Bella frase, certo. Ma chi cazzo è che ti tratta davvero come “puoi e devi essere”?
La mamma? No: lei ti tratta come se fossi sempre il bambino col moccio al naso.
L’amico? Nemmeno: ti tratta come specchio delle sue frustrazioni, e quando migliori lo infastidisci.
Il prete? Figuriamoci: ti tratta come peccatore per tenerti sempre in debito.
Il capo? Ti tratta come risorsa, cioè come sedia con gambe.

E allora chi rimane?
Rimani tu. Solo tu. Perché nessuno sa cosa puoi diventare se non hai prima il coraggio di esporti al rischio di non riconoscerti più.

La fotografia che ti uccide

Il punto è questo: ogni volta che qualcuno ti tratta per quello che sei, ti inchioda a una fotografia, a una carta d’identità emotiva che non contempla evoluzioni. È l’etichetta più comoda del mondo: sei quello che sei, punto. E già qui c’è un piccolo assassinio. Goethe lo sapeva bene: in Le affinità elettive descrive come le relazioni, quando restano ferme nella forma imposta, non producono vita, ma solo prigioni affettive.

Ma anche l’altro lato della medaglia non è meno insidioso. Trattarti per quello che potresti essere può diventare una trappola più raffinata. Perché chi lo fa, spesso non vede il tuo potenziale: vede il suo ideale da appiccicarti addosso. Ti tratta non come sei, ma come vorrebbe che tu fossi, così da illudersi di averti forgiato a sua immagine e somiglianza.

L’abisso dove accade

C’è un attimo — invisibile, fragile, quasi crudele — in cui ti ritrovi spogliato sia dall’identità che gli altri ti appiccicano addosso, sia dai progetti che gli altri ti confezionano.
Un istante in cui nessuno ti tratta “per quello che sei” e nessuno osa trattarti “per quello che sarai”.
Un istante in cui non ti tratta nessuno.

È lì che accade.
È lì che il corpo si muove da solo, che l’inconscio prende la parola, che scopri un gesto, un desiderio, un’immagine che non ti aspettavi.
Non ti stai riconoscendo, ti stai vedendo per la prima volta.

“Se resti nella fotografia che gli altri ti hanno scattato, marcisci come una polaroid dimenticata al sole.”

E questo non vale solo per l’individuo. Vale per i popoli, per le guerre, per le famiglie. Guarda l’Ucraina e la Russia, guarda Israele e Palestina: lì nessuno tratta l’altro per quello che è — esseri umani con fame, sogni, carne fragile — e nemmeno per quello che potrebbero essere — comunità che costruiscono, generazioni che nascono. No: li trattano come nemici, bersagli, merce di scambio geopolitico. E così rimangono prigionieri di ciò che il potere decide che siano.

Lo stesso accade dentro la famiglia cristiana: non vieni trattato né per ciò che sei (con i tuoi desideri reali), né per ciò che potresti diventare (un individuo libero), ma per il ruolo che ti impongono: figlio devoto, peccatore in debito, soldato di un gregge. È il modo più sottile per cancellarti: non permetterti mai di “accadere”.

La lama a doppio taglio

E allora sì: trattami pure per quello che sono, se vuoi tenermi fermo.
Trattami pure per quello che potrei essere, se vuoi costruirti un pupazzo a tua misura.
Ma se davvero vuoi vedermi nascere, non trattarmi affatto.
Stai nel silenzio, stai nello spazio vuoto, stai nell’incertezza.

Perché solo lì posso accorgermi di quello che non sono ancora, e che non avrei mai scoperto se qualcuno avesse avuto la presunzione di dirmelo prima.

Goethe non lo sapeva, ma la sua frase è una lama a doppio taglio: nessuno può trattarti come puoi e devi essere, se non ti sei prima tradito e superato da solo. È lo stesso conflitto che anima Le affinità elettive: quando si pretende di guidare l’altro senza che l’altro abbia fatto esperienza del proprio desiderio, l’esito non è trasformazione ma tragedia.

Il resto è addomesticamento, catechismo, marketing motivazionale.
La vera rivoluzione è accettare il rischio che nemmeno tu sai chi diventerai.

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