Il Potere di un Sì e di un No
Capire il referendum sulla giustizia senza perdersi tra le parole difficili
“Ogni civiltà sceglie se inginocchiarsi davanti a un solo dio o camminare accanto a molti.”
Non è solo un voto politico: è una scelta di libertà
Molte persone, accendendo la televisione, sentono parlare del referendum sulla giustizia come se fosse una faccenda tecnica, riservata ai magistrati o ai politici.
Ma in realtà, dietro quel “Sì” o “No”, si nasconde una domanda molto più profonda:
chi deve avere il potere di giudicare?
E soprattutto: chi controlla chi?
Immagina che la società sia come una grande bilancia. Da una parte c’è il governo, che fa le leggi e le fa rispettare. Dall’altra parte ci sono i giudici e i pubblici ministeri, che devono assicurarsi che quelle leggi valgano per tutti — anche per chi governa.
Se la bilancia è in equilibrio, la giustizia funziona. Ma se uno dei due lati pesa troppo, l’altro finisce per piegarsi.
Che cosa cambia con questo referendum
La riforma proposta dal governo riguarda proprio la separazione delle carriere dei magistrati. Oggi, in Italia, giudici e pubblici ministeri fanno parte della stessa “famiglia professionale”: possono, nel corso della carriera, passare da un ruolo all’altro (anche se succede raramente).
Con la nuova riforma, invece, si vorrebbe creare due carriere completamente separate:
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una per chi accusa (i pubblici ministeri, che rappresentano lo Stato e le vittime);
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e una per chi giudica (i giudici, che decidono se l’imputato è colpevole o innocente).
Inoltre, verrebbero istituiti due Consigli Superiori della Magistratura — uno per i giudici e uno per i pubblici ministeri — e una nuova Alta Corte disciplinare per controllare entrambi.
Sulla carta sembra una cosa logica: ognuno fa il suo mestiere, ognuno resta al proprio posto. Ma la domanda vera è: chi controllerà, dopo, chi controlla?
Cosa significa votare SÌ
Votare Sì significa accettare la riforma e quindi dire: “Sì, voglio che giudici e pubblici ministeri siano separati in modo netto, con due organi distinti.”
Chi sostiene il Sì dice che:
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così si evita qualsiasi sospetto di “amicizia” o complicità tra chi accusa e chi giudica;
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si rendono più chiari i ruoli, e il cittadino saprà sempre chi sta facendo cosa;
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si dà più trasparenza al sistema e meno confusione interna.
Ma c’è anche l’altro lato della medaglia.
Molti magistrati, tra cui Nicola Gratteri, avvertono che questa separazione potrebbe indebolire chi accusa, cioè i pubblici ministeri.
Perché?
Perché una volta staccati dal corpo unico della magistratura, i PM potrebbero diventare più vicini al potere politico, cioè al Ministero della Giustizia e, in ultima analisi, al Governo.
Gratteri ha spiegato che solo lo 0,2% dei magistrati cambia davvero ruolo ogni anno. Per questo considera la riforma sproporzionata rispetto al problema che dice di voler risolvere. E soprattutto teme che il governo, col tempo, possa avere più influenza su cosa indagare e su chi fermarsi.
In parole semplici:
votando Sì, accetti che chi governa abbia un po’ più di potere su chi lo controlla.
Cosa significa votare NO
Votare No significa dire: “No, voglio che giudici e pubblici ministeri restino parte della stessa magistratura, indipendente dal governo.”
Chi sceglie il No non lo fa per conservatorismo o per paura del cambiamento, ma per difendere un principio fondamentale: l’autonomia del potere giudiziario.
È quella forza invisibile che permette a un magistrato di indagare su chiunque, anche su un politico, senza dover chiedere permesso a nessuno.
Votando No:
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difendi il diritto che la giustizia sia davvero uguale per tutti, anche per chi comanda;
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mantieni in equilibrio i poteri dello Stato, perché nessuno sia “più dio degli altri”;
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proteggi la possibilità che un cittadino comune, se subisce un torto, possa contare su giudici liberi.
In termini simbolici, il No è un atto di fiducia nella pluralità, non nella centralizzazione.
È il dire: “Voglio che il potere si bilanci, non che si concentri.”
Due modelli di società
Questa è la parte più importante, quella che tocca anche la filosofia e la visione del mondo.
Esistono, in fondo, due modelli di civiltà:
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Il modello monoteista del potere
Dove un’unica autorità decide cosa è giusto e cosa no.
È il modello della sottomissione, dell’obbedienza, del “così è stato deciso, quindi così sarà”.
Votare Sì significa spostare un po’ la bilancia in questa direzione: verso un potere centrale più forte e più accentratore. -
Il modello pagano e pluralista
Dove le forze si bilanciano, si confrontano e si limitano a vicenda.
Dove nessuno domina, ma tutti cooperano in un equilibrio dinamico.
Votare No significa mantenere questo equilibrio, dove il potere non è uno, ma molti poteri che si controllano reciprocamente.
In un certo senso, il No non è solo un voto politico: è una posizione esistenziale.
È dire: “Non voglio che qualcuno decida per me chi è innocente e chi è colpevole. Voglio che esistano sempre più sguardi, più giudizi, più voci.”
Un esempio semplice, come per un bambino
Immagina una partita a carte.
C’è chi distribuisce, chi gioca e chi controlla che tutti rispettino le regole.
Se la stessa persona distribuisce, gioca e controlla, il gioco non è più giusto.
Ma se chi controlla inizia a obbedire a chi distribuisce, nemmeno lì c’è più equilibrio.
Servono giocatori diversi, ruoli distinti, e nessuno deve essere “più potente” degli altri.
Questo è esattamente ciò che decide il referendum:
vuoi che il “controllore” resti libero o che dipenda da chi governa?
La scelta vera
Votare Sì o No non è una questione di simpatia politica, ma di fiducia nel potere.
Vuoi un potere unico che guida tutto dall’alto, o vuoi che ogni potere resti libero di dire la sua?
Votando Sì, rischi di avvicinarti a un modello monoteista: un solo centro decide per tutti.
Votando No, resti nel modello pagano: dove la libertà nasce dal confronto, non dalla sottomissione.
Rifletti
In fondo, questa non è solo una riforma sulla giustizia, ma un test sulla coscienza collettiva. Non si tratta di sapere chi ha ragione tra Nordio e Gratteri, ma quale idea di mondo vuoi lasciare ai tuoi figli: uno in cui la verità scende dall’alto, o uno in cui si costruisce insieme.
Il potere è come una fiamma: può scaldare o può bruciare.
La differenza sta solo in una cosa: chi lo tiene in mano.
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