La Sceneggiata del Potere
La Sceneggiata del Potere: Quando la Politica Recita l’Amore

Dalle dinamiche internazionali ai riflessi culturali, il potere moderno si nasconde dietro la narrazione che inventa per legittimarsi.

 L’amore come possesso: il riflesso oscuro del potere

Ogni giorno sentiamo al telegiornale la stessa storia: un uomo uccide la compagna perché “non lo amava più”, o una donna elimina chi la voleva lasciare.
Si parla di gelosia, di raptus, di follia. Ma in realtà è potere che non accetta la libertà dell’altro.

È lo stesso meccanismo che agisce nelle stanze della politica mondiale.
Meloni, Trump, Putin, Israele — ognuno a modo suo — reagisce come chi non tollera un rifiuto: quando un popolo, una nazione o un alleato “non li vuole più”, rispondono con minacce, ricatti, sanzioni o bombardamenti.
Non sopportano la perdita del controllo, proprio come chi, in una relazione, scambia la fine dell’amore per un’offesa personale.

Il potere, in fondo, non sopporta di essere lasciato.
E come in una relazione tossica, preferisce distruggere ciò che non riesce più a possedere, piuttosto che accettare la libertà dell’altro.

Il teatro geopolitico

Viviamo in un tempo in cui la politica mondiale somiglia più a un dramma sentimentale che a una riflessione strategica.
Ogni giorno assistiamo a titoli come “Gli Stati Uniti sono delusi dalla Cina”, “Israele si sente tradito”, “L’Europa non si fida più degli alleati”.
È la rappresentazione antropomorfica della geopolitica: gli Stati vengono trasformati in persone, i conflitti in discussioni di coppia, le guerre in litigi familiari.

Ma questa è solo la sceneggiata del potere.
Dietro i riflettori delle dichiarazioni e delle conferenze stampa si muove una rete di interdipendenze, strutture invisibili, norme condivise e credenze profonde che determinano ciò che accade.
Il potere reale, come già intuiva Claudio Simeoni, non appare mai in scena. Si dissimula, si adatta, cambia volto attraverso le generazioni, finché persino chi lo esercita non sa più di essere uno strumento.

“Il potere più pericoloso non è quello che comanda, ma quello che convince. Perché quando l’uomo crede di essere libero, e invece recita, la sceneggiata è già perfetta.”

Il caso Gaza e la narrazione capovolta

L’analisi di Alessandro Orsini sulla guerra a Gaza ha mostrato con chiarezza questo meccanismo.
Mentre gran parte dei media italiani celebrava l’immagine di un Trump stratega, capace di “fermare la guerra”, Orsini ricordava che la realtà era l’esatto opposto.
Non è stato Trump a fare una mossa diplomatica sui Paesi Arabi, ma i Paesi Arabi a compiere una manovra su di lui.

L’Arabia Saudita, irritata dai bombardamenti israeliani sul Qatar e dal sostegno americano, ha scelto di allearsi con il Pakistan, entrando sotto il suo ombrello nucleare.
Un gesto che, nel linguaggio diplomatico, equivale a uno schiaffo in pieno volto agli Stati Uniti.
Una mossa semplice, chiara, ma devastante: far capire a Washington che se non avesse posto fine allo sterminio dei palestinesi, avrebbe perso la fiducia dei propri alleati più preziosi.

Eppure, ciò che è arrivato all’opinione pubblica non è stato questo.
È arrivata una storia di comodo, una sceneggiatura patriottica in cui il presidente americano appare come un pacificatore tradito, mentre i popoli arabi vengono ridotti a comparse.
La realtà strutturale — fatta di potere nucleare, equilibri energetici, strategie economiche — è stata coperta da una narrazione psicologica degna di una soap opera.

Keohane: la trama invisibile delle regole

In After Hegemony, Robert Keohane aveva già spiegato tutto questo quarant’anni fa.
Nel mondo moderno, diceva, il potere non si esercita più soltanto con gli eserciti, ma attraverso regole, istituzioni e routine che plasmano i comportamenti degli Stati.
Persino quando l’egemone (come gli Stati Uniti) perde autorità, le strutture che ha costruito continuano a funzionare da sole: la NATO, il Fondo Monetario, l’ONU, le banche, i mercati.

Il potere è diventato architettura, non più gesto.
Chi appare in scena – il leader, il presidente, l’oratore – recita un copione scritto altrove.
Ed è per questo che, quando Orsini denuncia “la storia inventata in Italia”, ci invita implicitamente a fare ciò che Keohane chiedeva agli studiosi: guardare oltre gli attori e analizzare le regole del palco.

Finnemore: la magia morale del linguaggio

Ma capire le strutture non basta.
Martha Finnemore, nel suo National Interests in International Society, ci mostra che gli Stati non agiscono solo per interesse materiale: seguono anche idee e norme che legittimano le loro scelte.
Ciò che chiamiamo “diritti umani”, “sviluppo”, “ricostruzione”, spesso diventa un linguaggio morale usato per giustificare la violenza o il dominio.

Nel suo The Purpose of Intervention, Finnemore dimostra che il concetto stesso di “intervento umanitario” è una trasformazione semantica del potere.
Un tempo si parlava di “conquista”, oggi di “aiuto”.
Ma la sostanza non cambia: cambia solo la forma in cui il potere si racconta.

Ecco allora che nel piano di Trump per Gaza si parla di “ricostruzione a vantaggio degli abitanti”, ma il documento prevede che tutto avvenga “in base alla legge della concorrenza e della domanda e offerta”.
Una ricostruzione privata, per i ricchi, che lascia i palestinesi senza casa.
È la perfezione della trappola linguistica: rendere morale l’ingiustizia.

Simeoni: il potere che non sa di comandare

La filosofia di Claudio Simeoni aiuta a completare questo quadro.
Quando scrive che “chi comanda veramente non appare, e nemmeno sa di comandare”, descrive esattamente la natura adattiva del potere.
Il potere è come un fiume sotterraneo: non lo vedi, ma scava, piega le rocce, e crea nuove vie anche mentre sembra immobile.

Chi appare — il politico, il leader, il portavoce — non è che una forma momentanea del potere impersonale.
Spesso crede di dominare, ma è dominato dalla struttura che lo ha creato: il sistema economico, militare, religioso o mediatico che lo sostiene.
È la stessa legge del Crogiolo: un insieme di forze in fusione, che si ricombinano per sopravvivere a ogni mutamento.

Il potere come seduzione collettiva

Ogni volta che una nazione parla di “amicizia”, “valori condivisi”, “alleanza”, siamo davanti a un meccanismo di seduzione.
Il potere corteggia, promette, illude.
Come in una relazione tossica, chiede fedeltà in cambio di protezione, ma non tollera l’indipendenza.
E così, gli Stati diventano amanti gelosi: si insultano, si tradiscono, ma restano insieme per paura del vuoto.

Il linguaggio amoroso della politica internazionale serve a mascherare la dipendenza strutturale.
La differenza tra “amico” e “vassallo” diventa solo una questione di tono.
È per questo che Orsini, denunciando la “celebrazione del dittatore americano”, parla di Stato satellite: un Paese che si emoziona per chi lo domina, e lo loda come si loderebbe un dio padrone.

“Non c’è tiranno più forte di una storia ben raccontata. Quando il potere riesce a commuovere, non ha più bisogno di minacciare.”

Il crogiolo invisibile del potere

Se osserviamo le reazioni a catena — Arabia Saudita, Pakistan, Stati Uniti, Israele, Italia, Canada, Inghilterra ecc manifestanti — vediamo un sistema di cause ed effetti che nessun individuo controlla pienamente.
Ogni gesto genera conseguenze inaspettate, ogni decisione apre nuove tensioni.
Il potere non è un ordine, è una danza di adattamenti.

Simeoni direbbe che, in ogni epoca, “basta togliere un sassolino perché il potere crolli a valanga, nell’attesa che un altro si formi”.
È la legge della trasformazione, la stessa che muove la storia e la vita: nessuna struttura è eterna, ma tutte cercano di sopravvivere finché qualcuno le crede reali.

Oltre la sceneggiata: la libertà di pensare

Capire la politica non significa scegliere da che parte stare, ma riconoscere il linguaggio con cui il potere si dissimula.
Significa distinguere tra ciò che viene detto e ciò che viene fatto, tra chi parla e chi scrive le regole del discorso.
È un lavoro di lucidità, non di fede.

Quando smettiamo di credere alle narrazioni dei potenti e cominciamo a osservare le trame invisibili, allora la politica smette di essere un dramma sentimentale e torna a essere ciò che è sempre stata: una lotta per il controllo delle rappresentazioni.

E forse, proprio lì, possiamo iniziare a liberarci —
perché, come direbbe Simeoni, “la vera libertà non è sfuggire al potere, ma riconoscere dove si nasconde.”

“Finché continueremo a guardare chi parla, e non ciò che lo fa parlare, resteremo spettatori del potere — non protagonisti del mondo che costruisce.”

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