Dalla mente al mondo: il peso di una narrazione
Dalla Testa alla Storia: Come un Pensiero Diventa Guerra

“Un popolo che si racconta nemici ovunque non è come un individuo che si racconta incapace?”

Se ti ripeti “sono un coglione”, cosa succede dentro di te?

Cominciamo da qui, dal livello più intimo. Perché la verità è che nessuno di noi vive solo di fatti, ma anche — e spesso soprattutto — di narrazioni. Se un individuo ripete dentro di sé: “sono un coglione, un mezzo rimbambito”, quel pensiero non resta mai innocuo.
Diventa uno schema interiore, una trama che guida i comportamenti. È come se la mente scrivesse un libro e lo rileggesse ogni giorno. Un libro che, a furia di essere riletto, diventa manuale di autodistruzione. Ecco che la psiche si dota di una sua “politica interiore”, fatta di sfiducia, di difese, di scelte che confermano proprio quella convinzione negativa.

L’analogia è chiara: l’individuo si convince della propria debolezza, e così comincia a comportarsi da debole. È la vecchia trappola del pensiero che diventa azione e dell’azione che rinforza il pensiero.

E se un popolo si ripete “siamo deboli, siamo circondati”?

Ora allarghiamo lo sguardo. Lo stesso meccanismo che avviene nella psiche individuale accade nella storia delle società. E qui entrano in scena i libri, i giornali, i discorsi dei politici e dei generali.

All’inizio del Novecento, in tutta Europa, esisteva un genere letterario oggi dimenticato: la cosiddetta letteratura dell’invasione. Romanzi che vendevano milioni di copie e raccontavano sempre la stessa storia: “Il nostro paese è debole. Saremo invasi. I nemici sono pronti a colpirci.” In Inghilterra erano i francesi, i russi, e poi sempre più spesso i tedeschi. In Germania, il generale Friedrich von Bernhardi nel 1911 pubblica “La Germania e la Prossima Guerra”, con capitoli dai titoli inequivocabili: “Il diritto di fare la guerra”, “Il dovere di fare la guerra”, “Dominare il mondo o perire”.

La gente leggeva, si appassionava, discuteva. Ma attenzione: queste narrazioni non restavano romanzi. Diventavano realtà politica.
L’opinione pubblica, intossicata, chiedeva più armamenti, più sicurezza, più alleanze. E così, nel 1914, quando il generale Erich von Falkenhayn dichiarava: “Adesso siamo pronti, e prima è meglio è”, non parlava nel vuoto: parlava a un mondo che già da anni si raccontava quella stessa storia.

Ma non era già successo con la Bibbia?

Prima ancora dei romanzi d’invasione, c’è un libro che ha fatto esattamente lo stesso lavoro: la Bibbia. Non come opera spirituale, ma come gigantesca narrazione collettiva che ha trasformato convinzioni in leggi, paure in istituzioni, peccato in politica interiore.

La Bibbia non è rimasta un insieme di parabole:

  • per lo storico, è il testo che ha giustificato crociate, inquisizioni, colonizzazioni;

  • per lo psicologo, è la voce interiore che per secoli ha insegnato a ripetersi: “sei colpevole, sei indegno, devi sottometterti”.

È il primo grande romanzo dell’invasione, solo che l’invasione non era di un esercito straniero, ma della coscienza. E come ogni narrativa tossica, ha funzionato: se un popolo si convince di essere perennemente in debito con Dio, accetta senza discutere anche il debito con i suoi rappresentanti in terra.

Non è lo stesso meccanismo della mente che si sabota?

Ecco la parte interessante per gli psicologi. L’individuo e il popolo non sono poi così diversi. Un pensiero ossessivo dentro la psiche funziona come un romanzo collettivo dentro una società. Entrambi costruiscono la realtà che temono.

  • L’individuo che si ripete “non valgo niente” finisce per comportarsi in modo da confermare quella convinzione.

  • Il popolo che si ripete “siamo deboli, siamo minacciati” finisce per armarsi, stringere alleanze, e precipitare nella guerra.

In entrambi i casi il pensiero diventa profezia che si autoavvera. E la tragedia è che più cerchi sicurezza (nella difesa, nel sospetto, nel bisogno di conferme), più alimenti l’insicurezza.

Perché il cervello — e la società — amano le storie catastrofiche?

La risposta è semplice, ma inquietante. Il cervello, come l’opinione pubblica, è programmaticamente attratto dal pericolo. Una minaccia — vera o presunta — cattura più attenzione di qualsiasi promessa di benessere.
È per questo che ancora oggi i giornali aprono con le crisi, le guerre, i disastri. È per questo che dentro di noi il pensiero “sono un fallimento” ha più forza del pensiero “ho delle risorse”.

Nella società pre-1914 la narrativa della guerra imminente teneva tutti col fiato sospeso, proprio come dentro un individuo la narrativa dell’inadeguatezza tiene bloccata l’autostima.

Cosa succede quando il romanzo diventa programma politico?

E qui la storia ci insegna la lezione più dura. Perché quelle che potevano sembrare esagerazioni letterarie o ansie personali diventano, a un certo punto, decisioni irreversibili.

  • Nel singolo: la convinzione interiore diventa stile di vita, scelta relazionale, rinuncia preventiva.

  • Nel collettivo: la convinzione di essere minacciati diventa riarmo, alleanze, conflitto aperto.

Il passaggio è sottile: la paura privata diventa azione pubblica. E a quel punto non basta più dire “stavo solo pensando”.

Allora la domanda: possiamo scrivere un romanzo diverso?

“Ogni pensiero è una causa: prima o poi diventa effetto, dentro di te o nella storia.”

Questa è la sfida che riguarda sia lo psicologo che lo storico. Se i pensieri negativi e le narrazioni catastrofiche hanno il potere di trasformarsi in realtà, allora la via d’uscita non è negarle o fingere che non ci siano. La via è smascherarle, mostrarle come costruzioni, e scegliere di raccontarne di nuove.

Non si tratta di illudersi con ottimismo ingenuo. Si tratta di imparare a riconoscere che ogni pensiero — come ogni romanzo collettivo — è già una forma di architettura del futuro.

La vera provocazione: e se la pace fosse un libro da scrivere ogni giorno?

In fondo, la grande ironia è questa: se pensieri e narrazioni sono così potenti, perché lasciarli in mano solo alla paura?

  • Se un individuo può scrivere dentro di sé un “manuale di autodistruzione”, allora può scrivere anche un “manuale di costruzione di sé”.

  • Se una società può nutrirsi di romanzi di guerra fino a precipitarci, allora può nutrirsi di narrazioni di pace fino a consolidarla.

La domanda pungente, da lasciare sospesa, potrebbe essere:

“Se un pensiero può diventare una guerra, che cosa diventa la pace quando cominciamo a scriverla come fosse un libro?”

Rifletti...

Tra il coglione che si autoconvince e l’Europa che si è convinta di essere assediata, c’è la stessa dinamica: la narrazione costruisce il reale.
E questa, più che una lezione di psicologia o di storia, è una lezione di sopravvivenza:

scegli bene i libri che scrivi dentro di te, perché un giorno potresti doverli vivere davvero.

Per approfondire, se vuoi capire meglio come le narrazioni collettive possano trasformarsi in realtà politica e condurre interi popoli verso il baratro, un libro imprescindibile è: Christopher Clark – I sonnambuli. Come l’Europa arrivò alla Grande Guerra, uno dei saggi più influenti sull’origine della Prima Guerra Mondiale. Clark mostra come le paure, le alleanze e le ossessioni abbiano guidato l’Europa passo dopo passo verso il disastro, senza che nessuno se ne accorgesse fino all’ultimo.

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