Parlare in Pubblico: Paura, Ridicolo e la Forza di Diventare Uno
“Perché alcune volte ci sentiamo ridicoli quando parliamo davanti agli altri? Da dove nasce davvero la sensazione di ridicolo quando prendiamo la parola?”
L’inganno del ridicolo
Molti credono che la paura di parlare in pubblico nasca dallo sguardo degli altri. “Mi giudicheranno”, “penseranno che sono ridicolo”, “non sarò all’altezza”. Ma la verità è più sottile, quasi crudele: non è il pubblico a condannarci, siamo noi stessi.
Dentro di noi si accende un piccolo teatro segreto.
Sul palco c’è l’attore, quello che parla, muove le mani, prova a raccontare ciò che sente.
In platea c’è l’osservatore, che guarda e registra ogni dettaglio.
E dietro, quasi nascosto, c’è il giudice, che trasforma l’osservazione in condanna: “Sei ridicolo”.
È lì che la vergogna prende forma. Non perché dieci persone ci stanno guardando, ma perché un frammento di noi ha deciso che non siamo abbastanza. L’osservatore, invece di limitarsi a guardare, si traveste da boia e ci colpisce.
Il pugile che non sei ancora
A volte però non è nemmeno una condanna: è una distanza.
Dentro di noi vediamo un film grandioso, un’immagine potente di ciò che potremmo essere. È come guardare un pugile sul ring: sicuro, agile, capace di colpi che ribaltano l’incontro. Senti che quell’immagine ti appartiene, che in qualche modo è “te”. Ma allo stesso tempo non riesci a viverla dall’interno. Rimani in platea, spettatore di una forza che non ti abita ancora.
E allora accade l’assurdo: persino la potenza diventa ridicolo, perché non è integrata. Non ti senti ridicolo per ciò che fai, ma per ciò che non riesci ancora a essere. È la scollatura tra la visione e l’esperienza che genera smarrimento.
La lezione di Sadhguru
In un suo discorso intitolato “Superare la Paura di Parlare in Pubblico”, Sadhguru rovescia la questione con semplicità disarmante:
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Non esiste parlare “in pubblico”: esiste parlare, punto.
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Non ti rendi ridicolo perché qualcuno ti guarda: ti rendi ridicolo solo se cerchi di sembrare più intelligente di ciò che sei.
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Il problema non è che dieci persone vedano la tua stupidità, ma che tu non abbia ancora imparato a starti vicino quando sbagli.
E aggiunge: “Il nervosismo nasce quando senti il pubblico come separato da te. Se lo percepisci come parte di te, è come parlare con te stesso. Allora non c’è paura, solo espressione naturale di ciò che sei”.
Il nodo del giudizio interiore
Il vero ostacolo, dunque, non è la folla davanti a noi ma il tribunale dentro di noi.
Finché l’osservatore rimane intrappolato nel ruolo del giudice, ogni parola detta sembra sotto processo.
Ma se l’osservatore torna a essere un testimone neutro, allora la scena cambia. Non ci sono più tre sé che litigano (attore, osservatore, giudice), ma due che si sostengono (attore e testimone).
E quando questi due diventano uno — quando finalmente entri nel pugile che hai sempre visto sul ring — allora non c’è più ridicolo, ma presenza.
Dalla paura alla presenza
La paura di parlare in pubblico non è altro che paura di separazione.
Separazione da se stessi: tra ciò che sei e ciò che osservi, tra il film che immagini e la realtà che vivi.
Separazione dagli altri: tra chi parla e chi ascolta, come se fossero due mondi opposti.
Superarla significa ricucire.
Significa accettare che il pubblico non è un nemico, ma un’estensione di te.
Significa smettere di chiedere al giudice interiore il permesso di esistere.
Significa, soprattutto, abitare il proprio pugile interiore, non guardarlo da fuori.
E qui entra in gioco un aspetto spesso dimenticato: per non restare prigionieri del ridicolo serve allargare lo sguardo. Non basta imparare tecniche di respirazione o di eloquenza: bisogna abituarsi a vedere la realtà da più prospettive.
È lo stesso principio che muove Controbattere – Oltre il Pensare: un luogo di società e cultura multidisciplinare pensato per chi vuole crescere artisticamente e umanamente. Proprio come un film non nasce solo dal regista ma da una miriade di figure – musicisti, sceneggiatori, tecnici, attori – anche noi diventiamo più interi quando intrecciamo filosofia, cinema, musica, scienza e letteratura. Solo così il giudizio interiore smette di dividerci e si trasforma in presenza.
Quando non ci sentiamo in forma o quando qualcuno ci irrita
Questo meccanismo interiore non si manifesta solo quando parliamo davanti a un pubblico. Vale anche in situazioni quotidiane molto più comuni.
Pensiamo a quando non ci sentiamo in forma: ci guardiamo allo specchio e l’immagine che vediamo non coincide con quella che avevamo in mente. Non è lo specchio a ferirci, siamo noi stessi a colpirci con il giudizio. L’osservatore interno si trasforma di nuovo in accusatore, e invece di accogliere il nostro stato momentaneo, lo condanna.
Oppure pensiamo a quando qualcuno ci irrita profondamente: in superficie siamo infastiditi dall’altro, ma in realtà dentro di noi accade la stessa dinamica. L’attore siamo noi che reagiamo, l’osservatore guarda, e il giudice commenta: “Non dovresti sentirti così… stai esagerando, sei ridicolo”. Non è l’altro a farci male, ma la lama affilata del nostro stesso tribunale interiore.
Ecco perché la chiave non sta nel pubblico, nello specchio o nelle persone che ci infastidiscono, ma nella frattura interiore tra chi agisce e chi giudica. Quando impariamo a lasciare che l’osservatore resti un semplice testimone, senza trasformarsi in boia, il ridicolo perde potere. Che si tratti di una platea, di un corpo stanco o di una persona che ci provoca, l’esperienza non diventa più condanna, ma presenza.
La liberazione del ridicolo
E se, nonostante tutto, ti capita di inciampare nelle parole o di dire qualcosa di insensato? Lascia che siano gli altri a giudicare, se vogliono. Fa parte del loro ruolo. Non serve che tu ti auto-flagelli.
Il ridicolo smette di essere una condanna quando non lo alimenti più con il tuo stesso sguardo.
Diventa un episodio passeggero, quasi un sorriso.
Perché alla fine non parli in pubblico: parli.
E nel parlare, se sei intero, non c’è più spazio per la paura, ma solo per la verità del momento.
Rifletti
Il vero “superamento della paura” non è imparare a recitare meglio, a controllare i gesti o a modulare la voce. È molto più radicale: è imparare a non dividersi da se stessi.
Quando il pubblico diventa parte di te, e quando il pugile sul ring non è più un’immagine ma la tua pelle, allora le parole smettono di tremare. Non stai più facendo un discorso: stai semplicemente vivendo ad alta voce.
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