Il menefreghismo voluto: perché c’è chi sceglie di bocciarsi da solo, a scuola e nella vita?
“Non è che non sa cosa dire: sceglie di non dirlo. E nel silenzio costruisce il suo paradossale atto di potere.”
Capita di sentire ragazzi dire: “Mi fa schifo studiare”. È un rifiuto chiaro, diretto, quasi viscerale.
Ma c’è un fenomeno ancora più enigmatico: chi si presenta all’esame senza aprire bocca, pur sapendo che basterebbe uno sforzo per superarlo e finire la scuola.
"Non è disinteresse, non è ignoranza: è mentefreghismo voluto."
In questo articolo proviamo a capire cosa c’è dietro questo comportamento: perché un giovane dovrebbe sabotarsi così platealmente, scegliendo la bocciatura quando potrebbe farcela?
“Il vero menefreghismo è non fare nulla o scegliere di non collaborare?”
Non è semplice pigrizia
Se fosse solo mancanza di studio, almeno proverebbe a dire qualcosa.
Se fosse solo paura, si tradirebbe in esitazioni, in risposte a metà.
Ma la scena muta ripetuta è già di per sé un gesto intenzionale, una sorta di dichiarazione implicita: “Io non partecipo al vostro gioco.”
È un atto teatrale, e come tale ha un messaggio dietro.
Cosa vuole dimostrare chi si fa bocciare apposta?
1. Ribellione mascherata
Lo studente sembra dire: “Non vi darò la soddisfazione di piegarmi alle vostre regole. Bocciatemi pure.” La bocciatura diventa così un gesto di sfida, un modo per non concedere potere a genitori, insegnanti, istituzioni.
2. Richiesta di attenzione
La scena muta, per quanto silenziosa, è un atto clamoroso. Obbliga tutti a guardarlo, a chiedersi: “Ma perché non dice nulla?” È un paradosso: il rifiuto di partecipare diventa il modo più efficace per catalizzare attenzione.
“È davvero menefreghismo o è un modo per farsi notare più di tutti?”
3. Identità nel fallimento
Paradossalmente, alcuni ragazzi trovano più forza nell’essere “quelli che si fanno bocciare” che nell’essere “quelli che ce la fanno”. È un’identità ribelle, alternativa: non il bravo studente, ma il sabotatore consapevole.
4. Paura di crescere
Finire la scuola significa affrontare la vita adulta, con le sue responsabilità. La bocciatura, pur dolorosa, è anche un modo per rimandare il salto. È una strategia inconscia per rimanere nell’adolescenza, nel già conosciuto.
Il corpo che parla al posto delle parole
C’è però un dettaglio che non passa inosservato: molti ragazzi che fanno “scena muta” mostrano tic o gesti ripetitivi. Un esempio evidente è mangiarsi continuamente le unghie, come se fossero un panino. Un atto che a prima vista sembra banale, ma che in realtà rivela molto:
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Ansia compressa, che non trova sfogo nelle parole.
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Autodistruzione silenziosa, perché si divora letteralmente una parte di sé.
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Bisogno di controllo, perché quando tutto sfugge (esami, aspettative, futuro) almeno il corpo diventa un campo in cui esercitare potere.
È il paradosso perfetto: tace davanti ai professori, genitori, allenatori, partner, ma intanto il corpo “urla” la tensione.
Allenarsi al non fare
Così come un atleta allena i muscoli, chi sceglie il silenzio allena la propria assenza. A scuola non parla, in famiglia si chiude, davanti a una ragazza si ritira: in tutti i casi esercita la stessa abilità — quella di non esporsi. È un modo di tenere il controllo: “Se non entro in partita, nessuno può farmi sbagliare.” Ma il prezzo è alto: a furia di non allenarsi al parlare, ci si allena al tacere.
È davvero pigrizia o solo fiducia mai ricevuta?
I ragazzi così non sono “scemi” né “pigri”: sono ragazzi a cui non è stata data fiducia vera.
Quando cresci con l’idea che “non sai fare niente”, o che qualsiasi cosa farai verrà corretto o sminuito, alla fine smetti di provarci.
È come se dicessero: “Se tanto non vi fiderete di me, allora non vi darò nemmeno la possibilità di avere ragione.”
Ed è qui che nasce la frustrazione di chi li osserva: professori, genitori o allenatori. Perché sembra proprio che lo facciano apposta: vedono che potrebbero fare, ma scelgono di non farlo.
In realtà non è una presa in giro: è il loro modo di dire “non giocherò mai a una partita dove so già di perdere la vostra fiducia”.
Paradossalmente, non sono ragazzi deboli: ci vuole una forza enorme per reggere il peso di “scegliere il silenzio invece di esporsi” e restare fermi nella propria ribellione silenziosa.
“Conta di più dire "non mi interessa" o mostrare con il silenzio che ti pesa tutto?”
Il paradosso del potere nel non fare
Ecco il nodo: chi sceglie di farsi bocciare non è senza potere. Al contrario, esercita un potere ambiguo e paradossale.
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Potrebbe usare l’attenzione per studiare e superare l’esame.
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Invece la usa per dimostrare che può non usarla.
È un atto di controllo: “Posso decidere di non collaborare, anche se questo significa farmi male da solo.”
In questo senso il “mentefreghismo voluto” non è disattenzione, ma un uso perverso dell’attenzione: la torcia non viene spenta per ignoranza, ma puntata apposta nel buio.
Il messaggio nascosto
Dietro il silenzio c’è quasi sempre un grido.
Chi fa scena muta agli esami, chi si fa bocciare apposta, sta comunicando:
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“Non riconosco valore a ciò che mi chiedete.”
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“Non mi interessa giocare secondo le vostre regole.”
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“Ho il potere di autodistruggermi davanti a voi, e voi non potete farci niente.”
È un messaggio di sfida, ma anche un segnale di conflitto interiore.
Esempi quotidiani del mentefreghismo voluto
Non succede solo a scuola. Lo stesso atteggiamento lo ritroviamo in altri gesti:
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Chi lascia la casa sporca apposta, come a dire: “Non mi adeguo alle regole del decoro.”
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Chi trascura il motorino o l’auto, pur potendo aggiustarla, come dichiarazione: “Non mi importa delle vostre aspettative.”
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Chi sceglie di non curarsi, anche di fronte a piccoli problemi, per mostrare un rifiuto delle responsabilità.
In tutti questi casi non è svogliatezza: è una forma di ribellione attraverso il non fare.
“Non sempre il silenzio è vuoto: a volte è un urlo, solo che nessuno sa come ascoltarlo.”
Riflessione: sabotaggio o libertà?
Il “mentefreghismo voluto” è un enigma: da un lato sembra libertà, dall’altro è auto-sabotaggio.
Non è pigrizia, non è disattenzione: è attenzione usata per negarsi.
La domanda rimane aperta:
"vuole davvero dimostrare che è libero, o sta solo imprigionandosi da solo nel suo gesto?"
Forse il punto non è giudicare, ma chiedersi: quale ferita, quale bisogno nascosto spinge qualcuno a preferire la bocciatura al cambiamento?
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