La pulsione psicologica del Dio cristiano
E qui, in questo meccanismo psicologico, si annida la pulsione più oscura e inconfessabile del Dio cristiano: la gioia sottile di vedere le sue creature fallire, inciampare, peccare, per poi poterle giudicare, punire, redimere a piacimento.
Il Dio cristiano, quello delle domeniche in chiesa e delle madonne piangenti, non è altro che il più grande dei falliti: ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza, e poi non ha saputo far altro che biasimarlo per non essere abbastanza divino.
Un Dio che si compiace del peccato perché senza peccato non avrebbe ragione d’esistere, e che, invece di combattere la propria pulsione al fallimento, la istituzionalizza, la canonizza, la fa dogma.
Non è un caso che anche Aldo Busi, nel suo libro "Bisogna avere i coglioni per prenderlo nel culo", affronti il tema del Dio cristiano con la sua consueta lucidità dissacrante.
Busi tratteggia la divinità come una proiezione delle nostre debolezze, un’entità che si compiace della nostra incapacità di essere all’altezza, quasi fosse un supereroe inventato da adulti che non hanno mai smesso di essere bambini.
Il Dio cristiano, secondo Busi, è una figura che, anziché emanciparci, ci tiene in uno stato di eterna dipendenza e colpa, non troppo diverso da come un bambino si aggrappa all’Uomo Ragno per sentirsi protetto e giustificato.
Complicità e promozione del fallimento
Chi non ha voluto combattere questa pulsione, chi si è limitato a subirla, a giustificarla, a celebrarla nei riti e nelle processioni, ne è stato il promotore più zelante.
I santi, i martiri, i flagellanti: tutti complici di un sistema che si regge sulla colpa, sulla vergogna, sulla necessità di essere sempre in difetto rispetto a un modello irraggiungibile.
Nessuno che abbia mai avuto il coraggio di dire:
“No, io non ci sto.
Preferisco essere felice da solo che infelice in compagnia.
Preferisco la mia solitudine al vostro coro di lamenti.”
La società come oratorio di falliti
La società, oggi più che mai, è un grande oratorio di falliti che si danno di gomito, che si scambiano pacche sulle spalle, che si raccontano a vicenda che la colpa non è loro, ma di un sistema, di un destino, di un Dio che li ha voluti così.
E chi prova a uscire dal coro, chi osa anche solo pensare di poter essere felice senza chiedere il permesso, viene subito richiamato all’ordine, sbeffeggiato, ostracizzato.
Il fallito non tollera la felicità altrui: la vive come un affronto personale, una bestemmia contro la sua religione privata della sconfitta.
I promotori attivi del fallimento
Ma c’è di peggio: il fallito che si fa maestro, che si fa guida, che si fa pastore di un gregge di altri falliti.
È il sacerdote che predica l’umiltà perché non ha mai conosciuto la grandezza, il politico che invita al sacrificio perché non ha mai saputo godere, il genitore che insegna la rinuncia perché non ha mai avuto il coraggio di desiderare.
Sono loro i veri promotori della pulsione al fallimento: non la subiscono, la amministrano, la distribuiscono come ostie avvelenate.
Il coraggio di dire basta
E allora?
Allora bisogna avere il coraggio di dire basta.
Bisogna avere i coglioni – sì, proprio quelli – per prendersi la responsabilità del proprio destino, per accettare il rischio della felicità, per smettere di cercare consolazione nella sconfitta altrui.
Bisogna imparare a stare soli, a non chiedere l’approvazione di chi non ha mai avuto il coraggio di essere diverso.
Bisogna, in definitiva, smettere di credere in un Dio che gode delle nostre cadute e imparare a credere, se proprio dobbiamo, in un Dio che ci vuole vivi, gioiosi, indomiti.
Meglio eretici che santi nel paradiso dei perdenti
Il vero peccato non è il fallimento, ma la complicità nella sua diffusione.
Il vero inferno non è la solitudine, ma la compagnia forzata dei falliti.
E allora, meglio essere eretici, meglio essere esiliati, meglio essere felici contro tutto e contro tutti, che santi nel paradiso dei perdenti.
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