Parlare per Non Fare: Quando le Parole Riempiono il Vuoto dell’Azione (e della Trasformazione)
Hai presente quelle conversazioni da bar, quando si inizia a parlare di politica o di attualità?
Sembra che si stia discutendo di idee, ma in realtà si sta solo buttando via il tempo.
Non si sta proponendo niente. Non si sta costruendo nulla.
Si parla per sentirsi vivi nel rumore, non per cambiare qualcosa.
C’è un dettaglio che spesso sfugge: non è una conversazione, è uno sfogo.
Un modo per liberarsi di un peso, come il vapore che esce da una pentola a pressione.
Fa rumore, sì, ma non serve a cuocere nulla.
E chi parla in quel modo, quasi mai è disposto ad ascoltare davvero.
Non cerca soluzioni. Cerca consenso.
Un po’ di conforto nel dire “hai ragione”, una birra in mano, qualche pacca sulle spalle e via.
Caro Lettore, ti sei mai chiesto quante parole hai ascoltato in questi ambienti, parole che non avevano alcuna intenzione di cambiare nulla?
Ti sei mai accorto di quanto spesso le persone parlano di politica come se stessero parlando di una partita, senza mai assumersi il rischio del fare, del proporre, del mettersi in gioco davvero?
E allora sì, parlare così è perdere tempo.
Perché non serve né a capire, né a trasformare.
È come lucidare una finestra senza mai voler guardare davvero fuori.
Ma c’è un punto ancora più profondo.
Non è solo una questione di contenuti. È il rapporto tra la parola e l’azione che si è rotto.
Parliamo per proteggerci dall’agire.
Usiamo le parole come paravento, per non farci toccare dal rischio di prendere una posizione reale.
Questo mi ha fatto pensare a un piccolo libro straordinario:
“Il cammino dell’uomo” di Martin Buber.
Un testo semplice ma potentissimo.
Parla proprio di questo: del fatto che ogni vera parola nasce dal dialogo autentico, da un incontro vero con l’altro.
Ma se l’altro non è realmente davanti a te – se stai solo parlando per sentirti nel giusto – allora anche tu smetti di essere presente.
La parola diventa vuota.
Qui su Controbattere, invece, la parola dovrebbe pungere. Non accarezzare.
Non per fare male, ma per aprire.
Perché non partiamo da un ruolo, da un’identità visibile o sociale.
Qui non c’è l’opinionista, il seduttore, il professionista, il ribelle.
C’è il movimento interno. La spaccatura.
La tensione che senti nella pancia quando qualcosa ti urta e non sai perché.
E proprio di questo parla un altro libro che porto sempre con me:
“Il Crogiolo dello Stregone” di Claudio Simeoni.
Lì dentro non trovi verità preconfezionate.
Trovi crisi. Trasformazione.
L’idea che per diventare qualcos’altro, devi prima attraversare il fuoco delle tue contraddizioni.
Il crogiolo non è un luogo simbolico.
È quel punto esatto in cui ti accorgi che non puoi più mentirti.
E lì le parole, se le usi, devono essere vere.
E poi c’è chi, a tutto questo, direbbe:
“Ma a cosa serve parlare così profondamente? Non è più utile una chiacchierata leggera?”
Ed è qui che entra Nuccio Ordine, con il suo “L’utilità dell’inutile”.
Perché non è vero che pensare, riflettere, entrare nelle zone scomode della coscienza sia inutile.
È esattamente lì che nasce ciò che ci salva dal vuoto, dall’omologazione, dalla superficialità.
Quindi sì, parlare per non fare è buttare via il tempo.
Ma parlare per aprire spazi, per creare fenditure nella corazza, per mettersi a nudo…
quello no.
Quello è un atto di costruzione.
Controbattere è Costruire
Controbattere è uno spazio nato per ospitare riflessioni che partono da dentro.
Non da ciò che appari, ma da ciò che ti muove.
È per chi sente che alcune parole lasciano il segno, mentre altre servono solo a riempire il silenzio.
Qui si esplora, si mette in dubbio, si ascolta il proprio inconscio.
Non per avere ragione.
Ma per non perdere contatto con ciò che si è, sotto la superficie.
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